(vedi articolo in formato testo ai piedi della riproduzione)
“Archeologo del linguaggio forse non è la definizione giusta. Io sto cercando il Canavesano di non molto tempo fa. Quello che si parlava prima del boom economico, della turbolenza introdotta dall’industrializzazione che ha mescolato le carte e anche le parlate, ibridandole. Diciamo, prima degli anni Sessanta”.
Livio Tonso è uno studioso outsider (così si definisce lui stesso) sulla sessantina, dai modi gentili da umanista. Mi accoglie nella sua casetta azzurra al fondo della Via Torino, a Ivrea. Lo studio è colmo di strumentazione, libri e pile di scritti. Ha pubblicato un libro sul “Montalenghese” l’anno scorso e va in giro a sondare la parlata dialettale dei vari centri del Canavese…
“Sì, la mia area di indagine è il Canavese, tutto il Canavese. Nel mio programma ci sono 145 comuni. Sono canavesano di Montalenghe. Sono sempre vissuto a Ivrea ma i miei genitori, i miei nonni sono di Montalenghe”.
Com'è nata questa curiosità per il dialetto? Qual è il movente della tua ricerca?
“Fondamentalmente la convergenza di due fattori. Uno è la crisi della mia professione precedente, l'altro è un fatto casuale, la mia iscrizione, all’incirca nel 2000, a un corso di piemontese, tenuto dal professor Dario Pasero, che è una persona molto attiva nell'insegnamento del piemontese”.
La crisi della tua professione?
“Fino a non molto tempo fa mi sono occupato degli scambi culturali attraverso la corrispondenza. Gestivo un'organizzazione che si chiamava International Pen Friend Service (Servizio Internazionale per gli Amici di Penna). Riguardava tutti quei ragazzi che si scambiano lettere, facendo esercizio di lingua straniera e intessendo relazioni d’amicizia che varcavano i confini dei vari stati. Queste organizzazioni si rivolgevano agli insegnanti di lingua, che promuovevano presso i loro alunni queste attività. Era un lavoro bellissimo. C'era perfino una federazione internazionale che faceva capo all'Unesco, Fédération Internationale des Organisations de Correspondences et d’Echanges Scolaires (FIOCES), che coordinava i lavori di organizzazioni eterogenee che operavano in tutto il mondo (e della quale fui segretario generale dal 1993 alla sua dissoluzione nel 2000, anno fatale). La mia organizzazione aveva la sua sede esattamente qui, dove siamo adesso. Con l'avvento di Internet, nel corso di 10 anni siamo spariti dalla scena. Internet piano piano ha fagocitato questi scambi e tolto il terreno sotto i piedi agli operatori.
È così che ho dovuto cercare di occuparmi diversamente. E per combinazione, in questi stessi frangenti, per pura curiosità, come ti dicevo, mi sono iscritto a questo corso di piemontese. Tieni presente che io mi sono sempre occupato di lingue straniere. Per avvicinarmi al mio pubblico, che poi era costituito da insegnanti di tutto il mondo, ma in particolare europei, e, dato che ogni tanto li andavo a trovare per vedere come lavorare meglio per loro, io tendevo a parlare la loro lingua, e ho imparato così il francese, l'inglese, il tedesco, lo spagnolo il portoghese... Per altro sono laureato in lingue… Ed ecco che, frequentando il corso del Prof Pasero, mi è nato questo interesse per il piemontese. Che è la mia prima lingua, d’altra parte. In casa mia si parlava piemontese. E io, come il 99% dei giovani della mia epoca, parlavo dialetto in casa. E il Montalenghese è rimasto abbastanza stabile rispetto ad altri centri. I torinesi, i vacanzieri che hanno frequentato il paese, hanno un pochino ingentilito questo dialetto, che è originariamente è un dialetto rurale. Quelli che lo sentono per la prima volta dicono che assomigli al portoghese. Noi diciamo “bein” quasi come i portoghesi dicono “beim”, mentre i torinesi dicono: “bin”!
Per farla breve, è nata questa idea eccentrica di descrivere una parlata come quella di Montalenghe. Mi ci sono impegnato e dopo qualche anno è nato questo libro”.
Come si fa descrivere una lingua, un dialetto?
“Si segue la tradizione, ma anziché una grammatica normativa di come si deve parlare, si fa una grammatica descrittiva, di come si parla di fatto. E si trattano le stesse parti: la fonologia, la morfologia, la sintassi e il lessico. Ho attinto alla conoscenza diretta, ai parlanti del posto, più un certo materiale che ho raccolto da coloro che lo conoscevano, voglio dire filastrocche, proverbi e modi di dire.
L'Italia è ricchissima di dialetti. C’è un continuum dialettale, da un centro all'altro. Centri che prima del boom economico hanno vissuto in relativo isolamento l'uno dall'altro. Coltivando il loro campanilismo, guardandosi anche in cagnesco - nelle valli peggio ancora - e che davano vita in certi casi a dei veri e propri gerghi, come quello famoso dei magnin, i calderai. Coltivavano le differenze, anziché cercare di assimilarsi come si fa ora. E così questi dialetti si sono col tempo caratterizzati, ognuno con degli aspetti specifici. Ogni paese parla un po' diverso, ed è quello che sto verificando andando di paese in paese e a volte anche in certe frazioni, dove una storia un po’ diversa ha prodotto anche diversità nella parlata.
Il mio lavoro è uno studio del Canavesano. Che esista il Canavesano non è messo in dubbio da nessuno, accanto al piemontese occidentale e al langarolo. Io cerco di cogliere le differenze tra i vari centri. Ho elaborato un'ipotesi di lavoro che prevede una trentina di punti indicativi di differenza fra il canavesano e la koiné piemontese. E quindi faccio un sondaggio minimo, centro per centro, con un questionario che sta in una pagina e su questi 30 punti sensibili registro le variazioni, le differenze. Questo è un test minimo di controllo. In certi centri, in aggiunta, approfondisco in maniera più accurata per una descrizione a livello medio.
Per quanto riguarda la fonetica mi propongo di sondarla a fondo. Voglio avere un quadro completo della fonetica. Ci sono variazioni interessanti che riguardano il modo di pronunciare consonanti e vocali. Ecco, vedi, stavo lavorando al sistema vocalico di Sparone” – mi mostra una schermata al computer e mi spiega come si scrive una lingua.
“Ci sono tre modi di scrivere una lingua. Uno è d’inventarsi un sistema proprio – è quello più comune per il dialetto, ma è anche quello più sbagliato. Un secondo modo e quello di usare l’ortografia ufficiale: il piemontese ce l’ha, ratificata dalla Regione. Ma l’ortografia ufficiale non sempre descrive bene il suono. L’italiano per esempio registra una buona corrispondenza tra ortografia e suono. Anche il tedesco è abbastanza fonetico. L’inglese invece è fuori. Un modo più coerente per scrivere la lingua parlata – perché una lingua nasce parlata – è quello di usare un sistema ad hoc, universale. Ogni suono, ogni fono, deve essere scritto in maniera univoca. Si ha così una scrittura fonetica. Questo che vedi sullo schermo del computer è il sistema internazionalmente più usato. Ogni suono ha un simbolo corrispondente. Questo è il grafico dei vocoidi (vocali) di Sparone. Il sistema qui usato si chiama IPA International Phonetic Association (Associazione Internazionale di Fonetica).
La mia storia, dunque, comincia con la descrizione del Montalenghese. Questo libro è stato apprezzato. È un libro indirizzato a un pubblico vasto, tranne poche parti specialistiche. Ed è stato apprezzato anche di più dagli studiosi. È piaciuto anche in paese, perché hanno letto certe parti, trascurando quelle più specialistiche. Ci sono parti che si rifanno alla storia di Montalenghe, e questo lo rende accattivante. Se n’è interessato anche il professor Giuliano Gasca Queirazza S.J., che è morto da qualche mese, e che è forse il più grande filologo italiano. Sono in contatto col professor Telmon che è ordinario di dialettologia. Col tempo forse maturerò qualche ambizione accademica, però bisogna pubblicare e pubblicare non è facile.
I dialetti vanno soggetti a mode. Ci sono i momenti in cui vengono abbandonati, ci sono dei periodi in cui tornano di moda. Ora è forse un periodo che tende a valorizzarli, all'interno di un processo di riscoperta e valorizzazione delle tradizioni locali. Torna l'interesse, lo studio, la ricerca.
Ma chi lo parla oggi il canavesano? È in quali ambiti di e in quali circostanze?
C'è un mio ex collega d'inglese che ha fatto una ricerca su chi parla il piemontese. Si chiama Arnaldo Alberti, di Banchette. Scrive più o meno regolarmente per La Sentinella. Chi parla il dialetto? Lo parlano i vecchi. In casa quelli più vecchi di me lo parlano ancora. Quelli della mia età se abitano a Ivrea non lo parlano più, se abitano Montalenghe lo parlano ancora. Per quanto riguarda i giovani, be', ne conosco alcuni che lo parlarono ancora, si tratta di giovani e di centri piccoli, perlopiù periferici”.
Che cosa succederà dei dialetti?
“I dialettologi discutono molto di questo argomento e non hanno le idee chiare. Alcuni sostengono che è dall'epoca della scoperta della vaporiera che si dice che i dialetti sarebbero scomparsi e invece i dialetti ci sono ancora. Anche se la spinta a parlare italiano è stata piuttosto forte, a partire dal dopoguerra. Gli insegnanti delle scuole scoraggiavano a parlare il dialetto. Ma che dire? Tutto ora è prevedibile fuorché il futuro”.
Cosa ti dà in termini personali, esistenziali, questa ricerca appassionata.
“Innanzitutto è un piacere intellettuale capire come funziona. Come funziona la parlata, come si relaziona a quelle vicine. È un lavoro molto lungo, mi ci vorrà del tempo per fare tutto questo lavoro, e dunque ne ho una prospettiva, un futuro. So che difficilmente dovrò fare i conti con la noia. Di fatto, mi appassiona moltissimo: ho ritrovato l'entusiasmo che avevo da ragazzino.
Il problema vero per me è quello di trovare degli informatori. Che sono persone e che hanno una certa età, e stanno scomparendo. E non posso trovarle andando, come si faceva una volta, dal farmacista. Devo trovare una persona interessata che sia ugualmente appassionata di cultura locale. Contrariamente a quanto si può pensare, incontro diverse persone che amano parlare di queste cose.
Quello che faccio, nel corso dei lavori che portano avanti un programma piuttosto imponente, è di impegnarmi in alcuni lavori minori, ma più immediatamente spendibili. Per esempio adesso sto lavorando sull'Eporediese e sul Calusiese. Per quel che concerne il Calusiese, la Credenza Vinicola di Caluso vuole editare la sua monografia annuale del 2010 dedicandola alla parlata. E io ci sto lavorando. Cerco di fare una cosa non eccessivamente specialistica e orientata un po' verso l'etnologia. Gli attrezzi, le storie che raccontano, i posti, le vigne, la coltivazione…, corredata di foto.
Poi sto facendo per conto mio un’indagine sull’eporediese. Su un dialetto che non esiste. Mi spiego meglio. Arnaldo Alberti dice che è al massimo il 9% degli eporediesi che parlano piemontese. Se lo dice lui è da prendere per buono. Io avrei detto meno. E queste persone parlano la koiné, una koiné di seconda mano. Si tratta di un torinese canavesanizzato.
C'è un documento che è quello del Biondelli, della metà dell'800, sull'Eporediese. Questo Biondelli faceva delle ricerche per corrispondenza. Aveva una serie di corrispondenti ai quali chiedeva di scrivere la parabola del figliol prodigo nella loro parlata. E doveva avere molti conoscenti in Canavese perché esistono diverse versioni di questa parabola. Ne risulta che a metà dell’Ottocento l’Eporediese era già torinesizzato.
Sto facendo una vera e propria indagine investigativa sui paesi vicini a Ivrea. Mi sto informando sulle parlate di questi paesi. Una buona ipotesi dei dialettologi sostiene che le parti più antiche del dialetto si trovano in periferia. E dunque io vado in periferia, nei centri vicini, come Montalto, Pavone, Chiaverano, Cascinette, ecc. e quello che trovo è che parlano in maniera abbastanza uniforme”.
Mi guarda con due occhi grandi in cui è visibile la luce della curiosità e della passione.
“Il fenomeno linguistico è davvero curioso, se ci pensi bene. L’esistenza delle differenze di fonazione suscita meraviglia. Io ricordo un episodio dell’infanzia che forse è significativo per il mio interesse per le lingue. Avevo 10 anni e a Montalenghe erano arrivati dei parenti americani in vacanza. Parlavano un americano da emigranti, strapazzato e dialettizzato, ma era pur sempre un’altra lingua con strani suoni. Mia nonna aveva fatto un’osservazione che mi aveva fatto ridere a lungo. Si era domandata come mai gli americani dovessero fare tutti quei contorcimenti della bocca per parlare, non sarebbe stato più semplice parlare tutti come si parla noi?
È forse quest’episodio che mi fa sentire ancora curiosità su come a Sparone dicono “baica” o di come viene articolata la erre – non apicale (come nella media italiana e piemontese) ma preapicale, quindi più trillante…Eugenio Guarini
La Gazzetta del Canavese, 20 gennaio 2010